Il manifesto sottoscritto dai membri della Business Roundtable ha alimentato un dibattito, già di per sé importante, sulla finalità dell’impresa. Questo dibattito mi sembra quanto mai opportuno: sono moltissimi gli aspetti da mettere a punto, si incontrano tante interpretazioni diverse, e probabilmente nessuno ha già la soluzione predefinita. A me, che ho fatto l’imprenditore per tutta la vita, sembra di notare buone ragioni da tutte le parti, ma anche qualche argomentazione a mio avviso non corretta ed un presupposto che mi piacerebbe cambiare.
Non posso pretendere tutto lo spazio che la mia passione per il tema richiederebbe, mi limiterò quindi a trattare un solo argomento, che nella mia lunga esperienza di imprenditore mi è stato a cuore più di altri e che, forse per questo, mi sembra trascurato: mi riferisco al presupposto di “contrapposizione” che aleggia, minandoli, in tanti ragionamenti.
I manager, che “fanno le barricate con i mobili” degli azionisti.
L’impresa, che se lasciata libera rovina il contesto nel quale opera, o che comunque “non ha titolo” per occuparsene.
L’imprenditore, che sfrutta il lavoratore e il fornitore, che raggira il cliente… etc etc.
Tutto questo esiste, s’intende, ma io penso che si tratti di una deviazione del sistema, non della interpretazione naturale.
Penso che il DNA dell’impresa la porti, per sua natura, a valorizzare i collaboratori, perché un lavoratore che si sente realizzato nel suo lavoro produrrà meglio; penso che la porti ad offrire prodotti e servizi che si dimostrano utili nel tempo, più di quanto sia il loro costo, perché i clienti si fidelizzeranno a quell’impresa; penso che la porti ad utilizzare il profitto per remunerare equamente le risorse e sostenere lo sviluppo dell’impresa; penso che porti molti azionisti a formalizzare con orgoglio aspettative che vanno ben oltre al solo profitto, senza con questo negare che esso sia indispensabile, e a condividere queste finalità più ampie con i manager che dovranno perseguirle.
In sintesi, penso che la buona notizia che trascuriamo è che l’impresa è, per sua natura, portata a crescere insieme al contesto nel quale opera, che è di gran lunga preponderante la quota di interessi in comune tra i vari attori dell’economia e ci sono molti imprenditori che “sentono” in questo modo. Penso che puntando su questa visione, su quel che ci unisce invece che su quello che ci divide, possiamo aspirare allo sviluppo di una economia davvero a servizio dell’uomo. O comunque è in questa direzione che mi interessa lavorare, anche attraverso la Fondazione a cui ho dato vita al termine della mia attività imprenditoriale.
Parlo di utopie? Se volete, chiamiamole pure utopie.
Parlo delle utopie che mi hanno ispirato quand’ero ragazzo e che ho avuto lo straordinario privilegio di poter conservare e coltivare durante tutti miei 44 anni di lavoro nell’azienda di famiglia (di cui una trentina da AD) alle prese tutti i giorni con le scelte di utilizzo di risorse scarse, senza che il confronto quotidiano con le esigenze del business riuscisse a smontarle.
Parlo delle utopie che spingono i partecipanti al corso di incubazione di nuove imprese che abbiamo organizzato tramite la Fondazione Buon Lavoro. Aspiranti imprenditori appassionati della loro idea, ben prima del risultato economico che ne possono trarre.
Parlo, in definitiva, di quello spirito imprenditoriale che tratteggiava molto bene Luigi Einaudi molti decenni fa: “è la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.”
michele alessi
Cavaliere del Lavoro
Fondatore e Presidente della Fondazione Buon Lavoro